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L’infanzia di un capo – Sartre e la genesi del male

"The Childhood of a Leader"

L’infanzia di un capo trae ispirazione dall’ultimo dei cinque racconti de Il muro opera magistrale e rappresentativa del grande scrittore e filosofo francese Jean-Paul Sartre. Scritto nel 1939, e ambientato nella guerra civile spagnola, iniziata nel 1936 e terminata nel 1939. L’opera, nello specifico il racconto in questione, narra l’infanzia cupa e morbosa del giovane Lucien Fleurier, dai suoi primi anni di età fino all’essere adulto.

Il regista però si discosta dall’originale e sontuosa opera e filosofia sartriana, dichiarando tra le altre cose, che l’unica fonte letteraria per il suo film è stata “Parigi 1919” di Margaret McMillan, cronaca degli eventi che portano alla firma del Trattato di Versailles a giugno 1919.

L’infanzia di un capo segue il percorso del giovane Prescott (Tom Sweet), che cresce in una villa fuori Parigi nella Francia devastata dal primo conflitto mondiale. Il giovane vive con la madre, anaffettiva e con il padre troppo preso dai suoi impegni lavorativi. L’uomo infatti è stato scelto dal presidente americano Wilson per far parte di una delegazione col compito di concludere le trattative che porteranno alla firma del Trattato di Versailles. La pellicola e la crescita del fanciullo sono segnati da quattro capitoli che corrispondo a quattro violenti episodi d’ira. Eventi che oltre ad accompagnarci con garbo nelle complesse trame dello sviluppo psicologico del ragazzo, indicano la genesi del male, quando da grande Prescott si ritroverà ad essere un importante dittatore.

Questa di Brady Corbet è un’opera prima. Ma il regista non spunta dal nulla. Attore impegnato, Corbet è stato il volto di molti personaggi per film e autori di culto. Mason in Thirteen di Catherine Hardwicke, Brian Lackey in Mysterious Skin di Araki, Peter nel remake americano di Funny Games di Haneke. Ma nel suo cv spiccano anche collaborazioni con Von Trier, Assayas, Östlund e Noah Baumbach. Insomma il ragazzo ha avuto modo di rubare con gli occhi e l’intelligenza di proporsi per parti e film mai banali. Questo non fa di te un regista, ma certo aiuta non poco.

Il cast di primissimo ordine, partendo da uno straordinario Liam Cunningham (sir Davos per gli appassionati del Trono di spade). Quindi Stacy Martin, ancora una volta morbosamente affascinante dopo il suo esordio tra i Nymphomaniac di Von Trier. Bérénice Bejo, chiamata a sostituire Juliette Binoche e che avevamo visto in The Artist (curiosità la Bejo e la Martin hanno poi girato insieme Il mio Godard di Hazanavicius, autore proprio di The Artist). Corbet affida quindi a Robert Pattison un piccolo ma essenziale doppio ruolo.

Quanto alla cifra stilistica stesso regista ha inoltre affermato di essere stato influenzato da cinque film: Mouchette – Tutta la vita in una notte di Robert Bresson, Sotto il sole di Satana di Maurice Pialat, L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, Dies irae di Carl Theodor Dreyer e Barry Lyndon di Stanley Kubrick.

Non è difficile comprendere il perché. La classicità (solo a tratti senilità) della mise-en-scène, l’ambientazione bucolica, l’ingerenza religiosa, i toni austeri del contesto familiare, sono solo alcuni degli elementi che il giovane autore rende suoi in questa complessa ed elegante opera prima. Sorprende di certo il coraggio e la maturità registica e narrativa di questo giovanotto dell’Arizona.

Il suo approccio così smaccatamente mitteleuropeo tanto nell’appeal stilistico, scenografico, fotografico e musicale (impressionante il wall of sound della OST di Scott Walker), quanto nei temi trattati.

 

L’invettiva politica sottesa allo script, volta alla condanna tout court dei totalitarismi del secolo breve parte da una raffinata speculazione intellettuale delle complesse dinamiche freudiane del giovane Prescott. Ma Corbet va oltre, quando sul finale del film fa interpretare il ragazzo, ora adulto e dittatore, a Pattison. Suggerendo così che il reale padre del ragazzo sia Charles Maker amico di famiglia, interpretato sempre dall’ex vampiro Edward. Una chiusa raccapricciante e chiaramente volta a condannare l’ipocrisia borghese, il peccato originale che sta a monte ad ogni disgusto adulto/adultero.

Siamo di fronte dunque ad un opera complessa e raffinata. Un cinema da camera algido che talvolta si dimentica di emozionare, ma impeccabile da un punto di vista formale e concettuale.