Iniziando dalla versione del pioniere della settima arte Theodore Marston, ne 1911, sono state dozzine le trasposizioni cinematografiche e televisive del capolavoro di Charles Dickens.
Il rischio di un’opera pedissequa e scontata in forma e contenuti, era dietro l’angolo. Nessuno come quel genio di Armando Iannucci, era maggiormente indicato per questa folle impresa di restyling. Il messia della satira, dal nome che non tradisce le origini italiane, brillante autore scozzese, ci aveva già convinti con The Thick of It e la “versione” americana Veep – Vicepresidente incompetente. Quindi la sferzante black comedy Morto Stalin, se ne fa un altro. Con tali premesse, non potevamo certo aspettarci qualcosa di ovvio da questo nuovo caleidoscopio dickensiano. La vita straordinaria di David Copperfield non è mai scontato, in nessuna delle sue scelte.
In primis il casting inclusivo, a partire dal ruolo del protagonista affidato al trentenne attore londinese (ma di origine indiana) Dev Patel.
Non è un ammiccamento alle politiche (peraltro incoraggiabili) di diversificazione del cast, bensì’ un’affermazione convinta dell’autore circa la modernità e l’attualità dell’opera. L’attore ne approfitta per confermare tutto il suo talento già abbondantemente mostrato sin dal folgorante esordio in The Millionaire, ma anche in Humandroid di Neill Blomkamp.
Il cast tutto, in realtà si muove amabilmente. Hugh Laurie, Tilda Swinton, Peter Capaldi, Ben Whishaw. Tutti a loro agio in questa deliziosa operazione che strizza l’occhio alle commedie slapstick, lo humor inglese, sgargianti colori à la Wes Anderson che appagano gli occhi e scalda i cuori.
Il tentativo di scardinare l’opera dal suo immaginario collettivo, rende il film di Iannucci, profondamente diverso ma idealmente simile alla brillante operazione antipop di Garrone con il suo Pinocchio.
Anche se la storia è, per ovvie ragioni, sacrificata dai tempi del cinema, La vita straordinaria di David Copperfield, è un eccellente film. Un’esperienza che va vissuta lontano dall’ingombrante capolavoro di Dickens e dal cliché della frase fatta e consumata: “eh però il libro è tutta un’altra cosa!”.