“Il miglior film dell’anno” Quentin Tarantino
Big Bad Wolves, ovvero anche gli israeliani sono incazzati neri, chi l’avrebbe mai detto eh?! O meglio anche in un paese come Israele (dove purtroppo gli orrori sono più reali che finti) riescono a tirare fuori un revenge-thriller con i controcazzi da far accapponare la pelle dai brividi, saltare sulla sedia, farti cadere la mascella a terra e farti gridare al capolavoro. Il merito è di due registi dal nome impronunciabile (Aharon Keshales e Navot Papushado) che evidentemente conoscono ogni dettaglio del cinema di genere occidentale e orientale e sanno come toccare le giuste corde del pubblico e della critica.
I titoli di testa e l’incipit del film sono agghiaccianti: una bambina scompare, e pochi giorni dopo viene ritrovata violentata e uccisa in un bosco. Decapitata. Un poliziotto ruvido e spiccio è convinto di chi sia il colpevole ma non ha le prove necessarie per incastrarlo. Licenziato in seguito ad un brutale interrogatorio diventato di dominio pubblico, cercherà la sua personale vendetta aiutato dal padre di una delle vittime. Forse. Ma sarà proprio così?

Abbiamo visto molti film con tematiche del genere, da ultimo Prisoners, il film che ha rivelato al grande pubblico il talento di Dennis Villenueve, sappiamo come una situazione così estrema valga come espediente per mettere in scena personaggi che fanno della violenza la loro natura. Big Bad Wolves non è da meno: i protagonisti vivono in un universo dove la violenza non è poi così sconvolgente e la solo idea di farsi giustizia da soli non impressiona chi li scopre, anzi. Più che altro è la maniera e la progettualità che mettono in scena che impressiona.
I tre personaggi principali, i bad wolves del titolo, sono i tre sopra indicati (a cui si aggiunge uno strepitoso quarto a vendetta cominciata) e i loro ruoli girano per tutto il film: vittima, carnefice, preda e predatore si confondono e non si capisce più chi è l’uno e chi è l’altro.

Quello che disturba di Big Bad Wolves è come un film del genere così macabro e marcio possa essere allo stesso tempo un film dallo stile elegante, pulitissimo con una cura del dettaglio quasi maniacale. Rendendo omaggio a registi come Chan-Wook Park, ai fratelli Coen prima maniera e Quentin Tarantino i due israeliani girano un film perfetto, dal ritmo serrato che riesce nel quasi impossibile compito di conciliare toni inconciliabili. Si perché da come ho descritto finora Big Bad Wolves potrebbe sembrare un revenge movie con venature horror. Esatto. Ma quello che lo innalza a cult assoluto è un sense of humour incessante che pervade tutta la pellicola: dialoghi e scambi di battute di alleniana memoria (il Woody migliore, quello dei tempi d’oro). In un crescendo di follia la violenza va a braccetto con la stupidità che diviene via via più caustica, spiazzante, surreale, macabra… Fino ad arrivare all’ultima scena del film che così come era iniziato gela il sangue nelle vene. Un cerchio che si chiude. (SPOILER, CLICCA PER LEGGERE!)
Non mancano stoccate alla cultura ebraica e al militarismo israeliano e non è un caso che l’unico uomo sano di mente sia rappresentato da un solitario palestinese a cavallo, protagonista di due scene chiave della pellicola, surreali e metaforiche allo stesso tempo.
Non ho i nervi per gli horror più duri e crudi, quelli li lascio volentieri al Biondo, ma raramente un film mi ha disturbato e messo un senso di disagio addosso come questo. Un film sicuramente non per tutti, adatto ad un pubblico ristretto ma anche ai fan di Tarantino e a quelli, perché no, amanti delle commedie nerissime. Un cult improvviso ed imprevisto, cattivo, marcio, ironico e spiazzante. Evviva il cinema israeliano, evviva i grandi, grossi, cattivi lupi israeliani. Imperdibile.