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Berlinale 2020: Favolacce

I fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, classe 1988, tornano alla Berlinale due anni dopo il fulminante esordio con La terra dell’abbastanza, stavolta in corsa per L’Orso d’Oro con Favolacce, uno sguardo livido e disilluso sulla realtà contemporanea del nostro paese.
Un cast stellare che mescola sapientemente nomi noti ed esordienti del cinema italiano: oltre a Elio Germano (già alla Berlinale come il pittore Ligabue in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti) e Barbara Chichiarelli (Suburra – La serie; 1994; La dea fortuna di Ferzan Ozpetek), ci sono anche Max Tortora come voce narrante, Gabriel Montesi (Il primo re di Matteo Rovere) e Ileana D’Ambra.
Il film, che ha già conquistato la critica a Berlino, uscirà nei cinema italiani dal prossimo 16 Aprile.

Spinaceto, estrema provincia romana.
Tra i campi e i villini a schiera, là dove le famiglie vivono una promessa di benessere illusoria fatta di piscinette e giardinetti, si intrecciano le vicende di un gruppo di bambini che osservano gli adulti e la violenza quotidiana (verbale e non) che li circonda.
I fratelli D’Innocenzo, tramite l’accostamento di scenette, situazioni e un perfetto character design, raccontano un nuovo coming of age più sofisticato e sottile rispetto a quello de La terra dell’abbastanza (2018).
E il finale, dopo aver messo insieme tutti i pezzi del puzzle, è un vero pugno nello stomaco.
Violento, scioccante, amaro.
Ed esplosivo.

Favolacce era l’inizio, La terra dell’abbastanza un passaggio obbligato per poter arrivare a raccontare questa favola nera prima che fosse troppo tardi.
La storia, scritta da due fratelli appena diciannovenni, prende spunto da un fatto realmente accaduto che, col procedere della narrazione, si mescola all’immaginazione per colmare gli spazi bianchi lasciati dalla cronaca nera.
I registi – fieri delle proprie origini di borgata, che li ha formati in fretta e senza preservativo – scelgono come habitat l’universo più insospettabile della provincia italiana, ispirandosi all’immaginario più ampio della suburbia americana.

Da qui in poi, il film rievoca percezioni e osservazioni della realtà che gli autori riportano dalla propria infanzia, mostrando come i bambini siano costretti a corazzarsi per sopravvivere al peso di un mondo bloccato dalla freddezza degli adulti verso il prossimo, ma soprattutto verso sé stessi.
È il sospetto crescente dello schifo della vita, che si espande contagiando ogni briciola di bellezza, un dubbio oscuro che precede la presa di coscienza, la perdita dell’innocenza: che il mondo sia davvero così?

Ne sono un esempio le numerose inquadrature del cibo, utilizzato come espediente narrativo.
Ispirandosi a Napoleon Dynamite (Jared Hess, 2004), in cui costituiva il seme del disgusto, in Favolacce il cibo sottolinea i momenti più gioiosi come quelli più grotteschi. Emblematico è anche l’insegnate, un personaggio molto umano in quanto incarna il ruolo del mostro per convenienza, così che il resto degli adulti possano ripulirsi la coscienza.
Ma non bastano le maschere fatte di capelli ben messi, vestiti nuovi, SUV e feste di compleanno per nascondere la faccia più nera e brutta di questi esseri.

Il tutto è filtrato dallo sguardo arrabbiato dei bambini, le cui vicende si intrecciano durante l’afosa estate che cambierà per sempre le loro esistenze e quelle delle loro famiglie.
Il piano che metteranno su insieme, svelato a poco a poco con gesti e immagini cinematografiche impattanti, non è guidato dalla sete di vendetta sui boomer.
È una rabbia trattenuta, ma naturale, priva di dietrologie legate al rancore generazionale, ma solo al pudore dei bambini, i quali scelgono maturamente di ribellarsi a un clima – quello dell’Italia contemporanea investita dalla paura: di comunicare, di condividere la paura stessa – di cui non vogliono far parte.

Il tutto è reso con una regia e una fotografia oniriche, che ricordano come doveva essere vedere la realtà con occhi pieni di meraviglia, come quelli dei bambini.
Il casting si è rivelato fondamentale in questo, portando sullo schermo giovani attori talentuosi a cui i registi hanno lasciato ampio margine di improvvisazione, giocando la carta dell’imprevedibilità.

Quel margine di disobbedienza, senza regole preimpostate, che fa sperare proprio nei più piccoli, gli unici che sapranno incanalare le informazioni in maniera fiduciosa per salvarsi. Per salvarci tutti.

Articolo a cura di Margherita Montali